Mattia Moreni. Gli oggetti, le cose, pensano in silenzio

La mostra, a cura di Roberta Perazzini Calarota, sarà visitabile fino al 27 luglio 2025 presso gli spazi del Secondo Piano Nobile di Palazzo Franchetti
Mara D'Aloise, Ytali, Marzo 1, 2025

Definito da Emmanuel Daydé come il «profeta Cassandra dalle inventive destabilizzatrici», Mattia Moreni nasce a Pavia il 12 novembre 1920, conseguendo la propria formazione e consacrazione artistica a Torino, dove, tra il 1940 e il 1941, frequenta l’Accademia di Belle Arti Albertina. Nel 1946, dopo aver preso parte alla Resistenza nel corso del Secondo conflitto mondiale, organizza la sua prima mostra personale presso la galleria La Bussola. È il principio di una lunga serie di fruttuose partecipazioni: l’anno successivo espone a Milano, alla Galleria Il Milione, mentre nel 1948 partecipa alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia, dove esporrà in maniera continuativa sino al 1956.
Distaccandosi dal gusto prevalente nella Torino di quegli anni, affine all’estetica di Felice Casorati, i primi anni di Moreni sono profondamente segnati dalle esperienze internazionali fauviste ed espressioniste: nel tratto cupo e nervoso dei primi lavori si contraddistinguono, in maniera precoce, aspetti che ne caratterizzeranno l’opera in futuro, come l’insistenza sul valore materico del colore nonché la tendenza a realizzare tele claustrofobiche, dominate da oggetti deformati privi di profondità prospettica. 
La ricerca artistica di Moreni ai allontana anche dal dualismo tra Astrattismo e Realismo promosso dal Fronte Nuovo delle Arti, e nel 1952 aderisce al Gruppo degli Otto guidato dal teorico Lionello Venturi, affiancandosi ad artisti quali Emilio Vedova, Afro, Renato Birolli, Antonio Corpora, Ennio Morlotti, Giuseppe Santomaso e Giulio Turcato. L’attività espositiva individuale e collettiva prosegue nel corso degli anni Cinquanta, attraverso le partecipazioni alla Biennale di San Paolo in Brasile e Documenta a Kassel, mentre nel 1954, a Frascati, avviene  l’incontro con il critico francese Michel Tapié. Si tratta di un passo fondamentale nella carriera artistica di Moreni, il quale si trasferisce a Parigi nel 1956, rimanendovi per un decennio. Nella capitale francese affitta uno studio nella centralissima rue Faubourg Saint-Honoré, mentre negli spazi della Galerie Rive Droite si avvicina sempre più all’Informale: il segno, oramai violento nella propria carica gestuale, assume piena autonomia estetica. 

 
Mattia Moreni, L'avanguardia é l'elettronca in avanzata..., 1995, Courtesy Galleria d'Arte Maggiore g.a.m. Bologna/Parigi/Venezia
 
La parentesi parigina – caratterizzata da personali di primaria importanza, tra cui l’antologica presso il Kunstverein di Amburgo nel 1964, e dallo stretto dialogo con artisti Informels del calibro di  Jackson Pollock, Willem De Kooning, Jean Dubuffet, Jean Fautrier, Alberto Burri, Mark Tobey – si conclude nel 1966: insieme alla compagna Poupy Pratt, l’artista si stabilisce definitivamente alle Calbane Vecchie, località del comune romagnolo di Brisighella. Si tratta di un isolamento volontario, motivato da esigenze personali e dall’insofferenza per il profondo mutamento del clima culturale internazionale, caratterizzato da una crescente mercificazione dell’arte. A Brisighella, pur limitando i propri contatti con il mondo artistico ed istituzionale, Moreni svolge la produzione degli ultimi decenni, prima di spegnersi il 29 maggio 1999. 
Articolato fra le stanze del Secondo Piano Nobile di Palazzo Franchetti, il percorso di visita si snoda attraverso le varie fasi artistiche di Moreni, denotando un progetto curatoriale attento, in grado di costituire un insieme cronologicamente e stilisticamente coerente. La prima sala, dominata dall’opera tarda Ah! quel Freud…La psicoanalisi sul divano (1997), restituisce  l’innato anticonformismo dell’artista lombardo, mentre la parabola dell’Informale volge delicatamente lo sguardo al ciclo delle Baracche e dei Cartelli, nonché al passaggio obbligato attraverso un capolavoro indiscusso come A tutti i maldestri del mondo: Amitié, presentata alla Biennale del 1960. L’utilizzo della parola scritta diviene ora imprescindibile: sulle tele vanno registrandosi cambiamenti, ripensamenti, errori, trasformazioni grafiche convulse in grado di restituire il genio artistico di Moreni.

 

Mattia Moreni, Immagine ancora penosa, 1961, Courtesy Galleria d'Arte Maggiore g.a.m. Bologna/Parigi/Venezia

 

Fondamentale la presenza del ciclo delle Angurie, il quale impegnò l’artista per dodici anni. Il frutto, la cui rappresentazione naturalistica procede in un fitto dialogo con la natura stessa – ad esempio raffigurando l’anguria, tagliata a spicchi o per intero, abbandonata tra i prati, oppure al limitare della vegetazione boschiva –, diviene ben presto un organismo soggetto ad un’inquietante metamorfosi di decomposizione, sino ad assumere l’identità dell’organo riproduttivo femminile, in una visione ricca di erotismo. In particolar modo è l’anguria “americana” a divenire metafora della condizione umana: chiamata così dai contadini romagnoli, essa viene chiusa all’interno di sacchetti di plastica al fine di accelerarne la maturazione, causandone una crescita anomala che la porta ad allungarsi in forme distorte. Il frutto, ora immagine dell’organo sessuale femminile, conclude la propria metamorfosi divenendo un genitale asettico frutto di alterazioni chimiche e fisiche. Nel corso della carriera artistica di Moreni la parabola di tale (irreversibile) degrado passa dal ciclo delle Atrofiche e delle Grandi Marilù per giungere alla categoria della Regressione della specie. Il percorso espositivo diviene pregnante nel porre in dialogo opere come Il pesce di celluloide del bambino buono, regressito (1984-86) – in cui l’animo dell’infante viene restituito dall’occhio malinconico del pesce stesso – e La pattumiera prende l’aspetto del gas verdastro del fetere dei politici fetonti (1983) – ascrivibile al ciclo breve delle Pattumiere – con la produzione degli autoritratti. A 69 anni di sua età. Autoritratto n. 14 (1990) costruisce un contatto inequivocabile tra la Regressione e l’attenzione dedicata da Calarota per l’ampio ciclo conclusivo degli Umanoidi, oculata riflessione da parte di Moreni sul post-organico. Il ciclo, culminante nella personale ravennate del 1996 L’umanoide tutto computer, avvia una riflessione sull’impatto della tecnologia nella quotidianità, nonché nella pratica artistica, in grado di inserirsi perfettamente nella tematica della 19. Mostra Internazionale di Architettura, dedicata a diverse tipologie di intelligenza. Gli Umanoidi, frutto di una commistione inesauribile tra essere umano e computer, protesi artificiali e apparati organici,non solo costituiscono l’esito finale della produzione artistica di Moreni, ma concludono in maniera esaustiva il percorso di visita, evidenziando il criterio delle scelte curatoriali e di allestimento. 

 

Immagine di copertina: Mattia Moreni, Ah! quel Freud... La psicoanalisi sul divano, 1997, ourtesy Galleria d'Arte Maggiore g.a.m. Bologna/Parigi/Venezia