FINO AL 26 NOVEMBRE, UNA MOSTRA A PALAZZO FRANCHETTI RACCONTA LA SUA ARCHITETTURA ATTRAVERSO LE ONOMATOPEE
VENEZIA. Fuori dai circuiti ufficiali della Biennale, nelle stanze di Palazzo Franchetti, una sorta di richiamo caratteristico prende forma, declinato come un mantra in 13 parole il cui suono nella lingua originale introduce direttamente il carattere dei progetti di Kengo Kuma (para para/pieno-vuoto, sara sara/fluido-morbido, guru guru/fluido-tornado, vortice, suke suke/orizzontale-piano, giza giza/duro-piega… e così via); una forma, a sua volta, di semplificazione che l’architetto giapponese ha scelto per coinvolgere il vasto pubblico nella mostra personale “Kengo Kuma. Onomatopoeia Architecture”.
Secondo Kuma grazie alle onomatopee (riprendendo il libro sull’argomento scritto nel 2015) la materia e il corpo si parlano e vibrano all’unisono, senza bisogno d’altro: «In questa mostra veneziana […] vorrei mostrare al pubblico il mio modo di instaurare un dialogo con i materiali. Sono attratto in particolare dai materiali morbidi; la morbidezza mi risana sempre perché mi ricorda mia madre».
AGGREGAZIONI INTIMISTE DI PARTI MATERICHE
Provare per credere. Una volta all’interno delle sale la sensazione è esattamente quella di una visione facilitata di ciascun progetto esposto (riprodotto in foto dal vero e nei bellissimi plastici per una fruizione ravvicinata a 360°), mentre verrebbe voglia di toccare tutto con mano, per sentire il sottile piacere di una linea fluida, il puntuale divagare dei vuoti (piccoli e grandi), le tante sorprendenti tessiture di legni pregiati ancora odorosi di bosco («L’onomatopea non tratta l’architettura come l’oggetto di operazioni da parte di agenti superiori (gli architetti), ma pone l’architettura e gli esseri umani su uno stesso livello. […] L’onomatopea è come una voce animale, emessa a livello fisico ed esperienziale»). Tanto più che ogni progetto si presenta come sommatoria di parti che l’occhio vigile dello spettatore potrà scandagliare fino a ricostituirne, passo dopo passo, la nascita. Nessuna forma monumentale, dunque, ma aggregazioni intimiste di parti materiche, quasi sempre essenze preziose che sommate, incastrate, meticolosamente disposte danno vita all’architettura, creano spazi, invitano alla sosta, promettono mondi nella loro apparente semplicità; perché, infatti, a ben guardare, la creatività dell’architetto è ribadita in ogni più piccolo particolare e spesso raggiunge il sublime.
È il caso della Coeda House (Shizuoka, Giappone, 2017), dove il carattere del luogo viene elargito nella totale orizzontalità (suke suke) e permeabilità visiva ma a partire da un eccentrico fulcro in legno di cedro che, come un albero stilizzato, pervade il soffitto, rompendo il silenzio delle pareti vetrate. Qui il contrasto materico predomina e il dialogo tra natura e artificio si fa intenso. Finché, in un crescendo di sensazioni, la pressione aumenta e la materia viene letteralmente esplosa (tsun tsun), proiettata nello spazio, in una deflagrazione di elementi costruttivi e compositivi: siamo di fronte al GC Prostho Museum Research Center (Aichi, Giappone, 2010) la cui struttura in cemento è avviluppata da un sistema decorativo parametrico formato da elementi in legno di cipresso che generano combinazioni prismatiche regolari, ottenute mediante giunzione ad incastro. Uno spettacolo per la vista.
Kuma è radicale: «Sono cresciuto in una piccola casa di legno e penso che gli architetti della mia generazione debbano trovare un altro materiale oltre al cemento. Il cemento è il materiale della società industriale del XX secolo […]. Il legno è il materiale più interessante in sostituzione del cemento». Perciò, l’edificio del centro comunitario The Darling Exchange (Sydney, Australia, 2019) è anch’esso avvolto da listelli di legno di pino che si dipanano in una spirale (guru guru) come un gomitolo di lana, quasi si trattasse di un enorme nido («Sono davvero impressionato dai nidi di uccelli. Essi raccolgono materiali diversi e costruiscono le loro case senza troppi problemi»).
Passando dal legno alla pietra naturale il discorso non cambia: Kuma ne indirizza il senso a seconda che si tratti di piegarne la durezza (giza giza) come per La Galilée de Saint-Maurice d’Angers (Francia, 2020-), un elegante vestibolo a protezione del portale occidentale della cattedrale gotica di Angers, dove sono state scoperte preziose sculture policrome del XII e XVII secolo; o di evidenziarne la superficie scabrosa (zara zara) come nel Kadokawa Culture Museum (Tokorozawa, Giappone, 2015-2020), un complesso multifunzionale il cui volume principale è concepito come un’enorme roccia dai lati spigolosi, grazie ad un rivestimento di Black Fantasy Granite le cui superfici grigie e nere sono punteggiate di macchie bianche (L’architettura è formata esattamente come una vera roccia… E quando entri nella roccia troverai una biblioteca a forma di labirinto. Lì dentro perdi la consapevolezza di dove sei).
Una sequela di progetti che sono, infatti, come ingressi in mondi altri. «La letteratura e l’architettura sono molto simili. Sia la letteratura che l’architettura devono fornire sogni alle persone. L’architettura che risolve solo un programma specifico non è realmente necessaria nel nostro mondo», dichiara Kuma nel video presente in mostra; lo stesso che avviene nei romanzi del suo scrittore preferito, Haruki Murakami, a cui è anche dedicato il progetto dell’omonima biblioteca a Tokyo (2021).
CREARE MONDI ALTRI
Nel 2016 Kuma ha ricevuto il Global Award for Sustainable Architecture. Ma a quale sostenibilità si fa riferimento? Non certo a quella più svilita e modaiola a cui, volente o nolente, ci stanno abituando i media. Il lavoro di Kuma è sostenibile perché dà un volto a un universo progettuale in via di estinzione dove ogni tassello, nella propria franchezza espressiva, fa da contraltare alla nostra megalomane esistenza e nel suo piccolo ne azzarda un divenire ancora pulsante, fatto di sensazioni che rischiamo di dimenticare in tanto rumore di fondo, e dove la natura (con particolare riferimento ai materiali utilizzati) viene messa a lavoro grazie alla mano esperta dell’architetto che riesce a coniugarne il carattere con le più avanzate tecnologie verso forme di mediazione colta e stratagemmi visivi che corrono sul filo dell’immaginazione e della caparbietà.
La natura, del resto, è caparbia e non smette mai di stupirci, sia nel bene che nel male; come un’eco emerge puntualmente in questi progetti ricordandoci da dove veniamo e il nostro stato di eroi in via di estinzione. Quanto resisteremo? Perciò Kuma stesso si trasforma in un eroe dei nostri tempi che col fare architettura persegue l’ambizione di creare mondi “altri” fino a respingere certa durezza materica delle metropoli, allontanarne la vista, il grigiume sempre più assolato e solo.
Un genere di resilienza “creativa”, dunque, poiché l’obiettivo è quello di far sognare le persone, e in questa direzione rappresenta un singolare tassello di riflessione sulla contemporaneità. Un genere di resilienza “intelligente” votata al recupero di tradizioni millenarie con l’impiego di tecnologie sofisticate come nelle stesse opere pensate appositamente per Venezia, città della resilienza per antonomasia, che paiono scaturite dall’acqua come emersioni caratteristiche del luogo: Laguna, un’avvolgente onda di alluminio, rivestita di sabbia del Piave, sul Canal Grande; l’Albero della barca, una scultura lignea in assi massicce di castagno veneto che accoglie i visitatori all’ingresso.
Nel frattempo, il tema dell’acqua rapisce e invita nel Water Culture House (Copenaghen, Danimarca, 2018-2025), inserito nel masterplan dello studio danese Cobe, a Paper Island. Secondo Kuma, «È il punto di Copenhagen dove sei più vicino all’acqua. Così abbiamo creato un luogo che non è solo per praticare sport. È un luogo dove sentirai l’acqua e diventerai tutt’uno con essa». Provare per credere.