Palazzo Franchetti a Venezia celebra una delle più grandi fotografe del Novecento. Dalla relazione con Man Ray e il surrealismo ai reportage dal fronte con la celebre immagine nella vasca di Hitler
È più interessante la vita o l'arte di Lee Miller? La sua carriera di modella, amante di uomini più o meno illustri, seduttrice vitale e vitalistica, giornalista oltre che fotografa, musa e insieme museo di artisti eccellenti, viaggiatrice indefessa, fotografa di guerra al crollo del Terzo Reich: la donna-giusta-nel-posto-giusto-al-momento-giusto? O i suoi ritratti: le pubblicità, i nudi, le istantanee prese al volo, il deserto egiziano, la Londra bombardata, le pagine di Vogue, i deportati e i morti tedeschi e le storie del dopoguerra? La risposta non c'è, perché l'una cosa è inseparabile dall'altra. O per far prima: entrambe.
La mostra che si è aperta a Venezia a Palazzo Franchetti, Lee Miller-Man Ray. Fashion, Love, War (a cura di Victoria Noel-Johnson, catalogo Skira), fino al 10 aprile 2023, espone le fotografie di lei accanto alle immagini di lui, e insieme sono tra gli scatti più belli del Novecento, i più affascinanti, perché contengono in potenza tutto quello che è stato e quello che sarà a partire dall'epoca tra le due guerre, momento irripetibile per la cultura europea, francese in particolare.
C'è quel rapporto tra lei e il suo mentore, un amore lungo tutta la vita, che l'irrequieta ragazza nata Poughkeepsie, Stato di New York, riesce a prolungare interrompendolo di colpo così da trasformare la passione di lui in arte. Tutto comincia con le molestie sessuali subite a sette anni, con una malattia venerea da curare e la morte tragica d'un innamorato a 13 anni sotto i suoi occhi: eventi che producono la cura spasmodica dei genitori che la viziano in modo spudorato e accentuano le sue capacità manipolatorie. Espulsa da scuola, la mandano a Parigi nel 1925 segnandone il destino. Ma non basta. C'è la bellezza congiunta con un'aura "ardita e luminosa" che ne fanno una vamp potenziale.
Ci mette la mano il caso: attraversa sbadatamente una strada a New York e sta per essere investita. La salva Condé Nast, il re dei rotocalchi, che la tira indietro. Lei balbetta qualcosa in francese e gli cade tra le braccia. L'effetto sono gli scatti di Edward Steichen che la trasformano in una diva sulle riviste di moda. Tutto poteva anche finire qui, se non fosse che Lee è una donna particolare, un carattere determinato, un'intelligenza prensile, ambiziosa e con uno smodato piacere per la novità. Incarna il tipo femminile dell'epoca: bionda, misteriosa, elegante, unione di angelo e demonio. Lei sa di essere tutto questo, e se ne serve. Che sia stata un tipo particolare lo dimostra la sua stessa biografia, il testo più dettagliato su di lei, scritta dal figlio, Antony Penrose, Le molte vite di Lee Miller (tr.it. di V. De Rossi e M. Baiocchi, Contrasto), che ne narra amori, storie, colpi di testa, alti e bassi, gettando un corto e spesso feroce raggio di luce sugli angoli della sua vita, come se a scriverlo fosse stato un estraneo.
La divinità che ha presieduto alla sua esistenza si riassume con la parola greca Kairos: è il tempo cairologico, che è il momento supremo o, se vogliamo, l'Occasione, che Lee sa cogliere in modo perfetto guidata da una forza superiore. Decide di diventare fotografa - meglio fotografare che essere fotografata, ha detto - e nel 1929 a Parigi va a bussare alla porta di Man Ray, il più fotografo surrealista, e non solo. Lui non c'è, è partito per le vacanze. Entra in un caffè lì a fianco e Man Ray sbuca da una scala. Gli dice che vuole essere la sua allieva; lui le risponde che non prende allievi e sta per partire. Lei: lo so, vengo anche io. Così vivono insieme per tre anni.
Le foto che le scatta Man Ray sono indimenticabili: l'estetica della moda, ma rovesciata. Dopo la statuaria greca il corpo non era mai stato mostrato così, in particolare quello femminile: si passa dal marmo al fluido. Ma non è solo una musa, come vanno dicendo in tanti. È un'artista. Sempre con Kairos incollato addosso - le cose devono accadere sempre "adesso" - nella camera oscura sente qualcosa che le transita sui piedi: accende di colpo la luce e scopre la polarizzazione, quella dimenticata dei dagherrotipisti. Sarà lo stigma della fotografia di Man Ray e della sua. Apre uno studio proprio e vive insieme a lui: si amano però non è facile. Continuando la sua carriera di modella ha altri partner e Man Ray impazzisce. Poi nel 1932 Lee va New York e apre un altro studio. È il successo. I ritratti che scatta, anche ad animali, sono fulminanti: sono apparizioni che stanno per scomparire. Vanity Fair la include tra i sette fotografi più famosi. Non le basta neppure questo. Nel 1934 sposa un ricco uomo d'affari egiziano di cui è l'amante, e si trasferisce in Egitto. La moglie di Aziz, ElouiBey, una delle cinque donne più belle del mondo, si suicida. Il matrimonio durerà tre anni. Le foto scattate nel Paese africano sono sorprendenti e anticipano lo stile che sarà della guerra vista da lei. Mette a frutto tutto quello che ha imparato dai surrealisti, senza esserlo davvero: l'objet trouvé che diventa paesaggio.
Viaggia incessantemente per i deserti in compagnia di uomini innamorati. L'avventura le corre nel sangue, inarrestabile. Ha pure allacciato una relazione con Roland Penrose, artista, amico dei surrealisti e critico. Lo seguirà a Londra separandosi da Aziz. Torna da dove era partita, ma come fotografa: l'edizione inglese di Vogue. Inizia anche a scrivere: ha una voce propria. Parte come inviata di guerra al seguito delle truppe sbarcate in Normandia. Questa è forse la parte più nota della sua attività, perché passa dalla casa di Hitler a Monaco - foto di Dave Scherman, suo compagno di viaggio, nella vasca da bagno mentre si lava, gli anfibi in primo piano e il ritratto del Führer di lato. Quindi è a Dachau dove testimonia l'orrore dei lager nazisti.
In che cosa consiste la sua bravura? Nell'unione di surrealismo e glamour, d'avanguardia e di moda. Nei suoi scatti c'è sempre qualcosa di artefatto, di posato, come nel celebre ritratto della figlia del borgomastro di Lipsia morta suicida: adagiata sul divano Chesterfield. E al tempo stesso qualcosa di vero: la vita, o la morte, così ben costruita da essere vera. Come lei stessa. Dopo questo viaggio nelle viscere disfatte del Reich cadrà in depressione, e anche successivamente alla nascita del figlio. Abbandona la fotografia e si trasforma in una supercuoca. La bellezza e la passione erotica l'abbandonano.
La frase più efficace per descrivere il suo carattere la pronuncia il suo medico, cui ha detto di essere depressa: «Non hai nulla, né possiamo tenere il mondo in un perenne stato di guerra per assicurarti l'eccitazione di cui hai bisogno». L'energia che la spingeva era quella, l'eccitazione, e lei sapeva dosarla con il talento del suo sguardo e dei suoi sensi.